Perché i partiti sono in crisi

 “Perché i partiti sono in crisi” Giampaolo Rossi

La guerra in Ucraina ha assorbito negli ultimi tempi tutte le nostre attenzioni. Eppure, salvo che non si tratti di grandi sconvolgimenti, resta vero che le guerre passano e i problemi restano. Chi ha l’abitudine di dire spesso “niente resterà come prima”, come di recente con il Covid, è stato poi smentito: Il più delle volte queste vicende stimolano spunti di riflessione. Il problema, poi, è se questi vengono colti o scompaiono nel nulla. Fra i principali problemi che restano vi è certamente quello della crisi dei partiti, cioè proprio delle organizzazioni che devono garantire il collegamento fra la società e lo Stato.

Che i partiti siano in crisi è ormai scontato.  Non si è fatta però una adeguata riflessione sulle cause del fenomeno e non si è compreso che il ruolo dei partiti è cambiato e lo spazio della politica si è ristretto per due ragioni che ora si esporranno. Sulle cause della crisi non manca una abbondante letteratura che la collega alla caduta delle ideologie, dei blocchi di appartenenza o, più in generale, all’impoverimento dei valori e delle tensioni etiche. Sono molto rare e fugaci, invece, le spiegazioni che partono dalla considerazione dei cambiamenti che sono intervenuti nella società, nei quali va individuata la prima causa della crisi e del restringimento dello spazio politico. Intorno alla metà del secolo scorso alla precedente divisione fra abbienti e non abbienti si è sostituita quella fra più e meno abbienti, interessati, i primi, alla accumulazione della ricchezza, i secondi alla redistribuzione Osservava Duverger che le formule politiche nascono in determinati contesti, ed è appunto in questo contesto che si consolida la distinzione fra Destra e sinistra e si fondano i partiti di massa che sostengono l’una o l’altra posizione, con motivazioni forti, anche di carattere ideale (libertà, uguaglianza, progresso, solidarietà ecc). Lo spazio per una posizione di Centro era in quel contesto limitata, salvo che, come per varie circostanze è avvenuto con la DC, non riuscisse ad assorbire gran parte di uno dei poli. Con il passare dei decenni la base meno abbiente si è avvicinata a quella benestante. Senza tentare voli sociologici e limitandoci alla osservazione empirica per singoli settori, si constata, ad esempio, che i ragionieri hanno assunto tutte le competenze dei dottori commercialisti; i geometri gran parte dei quelle degli ingegneri e architetti; per gli infermieri è stata prevista la laurea, anche specialistica per le funzioni apicali; i “bidelli” ora si diplomano e sono diventati “operatori scolastici”; gli addetti alle pulizie “operatori ecologici”; i mezzadri coltivatori diretti; i maestri elementari si sono avvicinati, nelle retribuzioni e nella considerazione sociale, agli insegnanti medi e superiori. Hanno contribuito a questo fenomeno i partiti di sinistra, spesso in accordo, nelle assemblee elettive, con la DC interclassista, e i sindacati confederali nei quali è stato preminente il peso quantitativo dei gruppi di lavoratori meno elevati e quindi più inclini ad organizzarsi per soddisfare le rivendicazioni. In Italia il fenomeno si è realizzato più che in altri Paesi, come la Francia nella quale la tendenza alle contrapposizioni è sempre stata più marcata.

La realtà sociale attuale è quindi ben diversa dalla precedente che la vedeva divisa in due. La gran parte della popolazione è composta da persone che hanno le stesse aspettative e bisogni analoghi. Ne resta fuori una piccola quota di super ricchi e una parte significativa, ma largamente minoritaria, di poveri più o meno assistiti. Sia la pandemia che la guerra hanno ampliato la fascia dei poveri, ma è ragionevole pensare che verrà riassorbita da varie provvidenze. La distribuzione del consenso elettorale fondata sui gruppi di appartenenza non regge alla verifica concreta: i voti degli operai, ad esempio, sono distribuiti fra tutti i partiti; c’è qualche prevalenza per i partiti di destra nel voto dei commercianti, ma non in modo esclusivo. Salvo orientamenti minoritari che rifiutano di accettare l’attuale contesto aperto e dinamico e tendono a chiudersi nei confronti degli immigrati e dell’Europa, la gran parte del corpo elettorale manifesta le stesse esigenze e inclinazioni. Solo il 4 per cento è decisamente ostile all’Unione Europea, nessuno mette in discussione la scuola pubblica, il servizio sanitario nazionale, l’assistenza agli incapienti, la tutela dell’ambiente e il contrasto al cambiamento climatico, la scelta atlantica. I punti indicati dal Presidente Mattarella, nel suo impegnativo discorso dopo la seconda elezione, trovano tutti d’accordo. Le differenze fra le forze politiche permangono, ma sono di gradazioni, non di posizioni nette. Sulle questioni essenziali, come quelle delle misure da adottare per adottare l’Ucraina e sull’esercito europeo, si è trovata o sfiorata persino l’unanimità. Lo spazio per scelte politiche alternative è notevolmente ridotto.

Il secondo motivo che contribuisce a ridurre questo spazio sta nella moltiplicazione dei diritti, da tutti accettata e sostenuta, e nella loro costituzionalizzazione e europeizzazione. La Corte Costituzionale, con        una giurisprudenza anche creativa, volta a difendere non solo la lettera ma i valori della Costituzione, ha dato un grande impulso all’aumento dei diritti, utilizzando l’art.3, 2°c che prevede l’uguaglianza sostanziale, e dando valore prescrittivo a norme di carattere programmatico (come il diritto alla salute). La conseguenza è che sfugge dall’ambito della politica la possibilità di incidere al riguardo. L’ordinamento europeo, superata la fase prevalente mercatistica, ha dato un ulteriore, importante contributo in questa direzione, con norme che sono al di fuori delle possibili decisioni parlamentari e quindi dei partiti.

I partiti si trovano quindi ad operare in un contesto diverso da quello precedente. Il loro ruolo è, insieme, più ristretto ma anche più complesso sia perché le scelte da fare non rispondono in modo univoco agli interessi di un solo gruppo sociale, sia perché la società che rappresentano è più omogenea per livello di reddito ma frammentata, spesso in sofferenza per l’inadeguatezza dei redditi rispetto ai bisogni crescenti. La società registra forme di vitalità di grande livello, ma le condizioni di vita sono affannose. La quantità dei beni consumati è aumentata, anzi gli scarti di ogni tipo, a partire da quelli alimentari, sono sempre più consistenti. Ma l’approccio consumistico, indotto da un mercato aggressivo e da una pubblicità che crea i bisogni in modo di poterli poi soddisfare, produce l’effetto che le esigenze aumentino, anziché diminuire, con l’aumentare dei consumi. I bisogni si trasformano immediatamente in diritti ai quali qualcuno deve comunque provvedere. Come ha detto Papa Francesco, ormai ciascuno ritiene di avere “il diritto di avere diritti” L’’insoddisfazione diffusa” (la “rabbia” ei Francesi) si traduce in una elevata mobilità del corpo elettorale: in due decenni, per tre volte (con Berlusconi, Renzi e i Cinque stelle) si sono registrati picchi di consenso che sono poi evaporati. Per altro verso l’insoddisfazione spiega l’elevato astensionismo e in movimenti senza sbocchi, come i No Vas.

I partiti si trovano in concorrenza fra loro non nelle grandi scelte ma nel dare una risposta alle esigenze immediate con la politica dei bonus anziché con un approccio di lungo periodo dal quale potrebbe derivare una risposta stabile ai bisogni. La concorrenza si fa, anche da parte dei partiti “conservatori”, con il criterio della “maggiore offerta”, come se lo Stato avesse fondi propri che consentirebbero spese senza che un altro della pagarle. Così, ad esempio, si cerca di risolvere il problema del rincaro delle bollette ponendolo a carico dello Stato, ma nessuno si era posto il problema di come un servizio pubblico essenziale potesse trovare soddisfazione solo con le dinamiche del mercato. Più in generale, esaurite le fasi del trabordamento dell’intervento pubblico nell’economia e poi quella dell’ubriacatura per il mercato, non è nemmeno all’ordine del giorno la ricerca di un equilibrio fra pubblico e privato nell’economia e nei servizi. Di ciò che fa la Cassa Depositi e Prestiti se ne ha una scarna informazione dai quotidiani. Restano così al di fuori del dibattito politico tutte le questioni di fondo: come si possa metter fine all’elevata evasione fiscale, incompatibile con il livello della spesa pubblica, quali spazi effettivi di autonomia e responsabilità si possono e si debbono “riconoscere” (come vuole la Costituzione) a Regioni e enti locali, come riorganizzare il territorio dopo aver messo una toppa alla nomina dei vertici delle Province, come garantire la sicurezza nazionale in alleanza ma non in dipendenza dagli Stati Uniti, come risolvere il problema dei 500.000 immigrati non regolarizzati in un contesto di preoccupante denatalità, come stabilire una politica strutturale degli ingressi al di fuori degli impraticabili approcci di totale apertura o chiusura, come creare possibilità occupazionali ai giovani che sono costretti a lasciare il Paese, come risolvere il paradosso di uno Stato destinatario di una domanda sociale crescente ma indebolito sul piano interno e internazionale, come, infine, dare una risposta all’avvertimento profetico di Aldo Moro: “Il nostro Paese non si salverà; la stagione dei diritti si rileverà effimera, se non nascerà un nuovo senso del dovere”. Il Governo Draghi ha avviato la modernizzazione del Paese, ma tutte queste grandi questioni restano aperte e sono rimesse all’attività dei partiti e del Parlamento. Ci si può chiedere se non sia velleitario sperare che questi partiti, in crisi, sovradimensionati, con un ambito di decisione diminuito, possano svolgere questa funzione. Potranno farlo se sapranno, o saranno indotti a snellirsi, a ricollegarsi con le forze vitali presenti nella società compresa la cultura dalla quale negli ultimi tempi si sono allontanati.

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