Il diritto delle associazioni, fra “privato” e “pubblico” (in occasione del novantesimo compleanno di Pietro Rescigno)

CONDIVIDI

Ringrazio gli organizzatori per la possibilità che mi offrono di celebrare uno dei miei Maestri con il quale ho condiviso periodi di intensa collaborazione nel Centro studi della Cisl e nella rivista Quaderni del pluralismo, e perché mi stimolano a riprendere la riflessione sugli enti pubblici associativi (“aspetti del rapporto fra gruppi sociali e pubblico potere”) pubblicato al n. 11 della biblioteca di diritto privato.

Nella presentazione Rescigno avverte la necessità di giustificare ai lettori la presenza di un libro “che si colloca, formalmente, nell’area degli studi di diritto pubblico”.

Si tratta, in realtà, di “figure in cui la nota della pubblicità, abitualmente intesa nel senso di un interesse generale riferibile all’intera collettività, viene ad assumere aspetti originali” e che rendono evidente (Rescigno) “la relatività della distinzione fra pubblico e privato”.

Questi temi non potevano che interessare uno studioso la cui caratteristica principale è stata quella di contribuire a togliere il diritto privato dalle anguste secche in cui veniva collocato da una concezione individualista e patrimonialistica ancora prevalente nella dottrina.

L’attenzione alle problematiche poste dai gruppi sociali, i partiti, i sindacati, le confessioni religiose, le associazioni sportive, culturali, è sempre stata al centro dell’analisi scientifica di Rescigno e ha determinato anche la presenza di apprezzabili contributi ospitati nella Biblioteca di diritto privato (C.M. Bianca, Le autorità private, 1977), vari contributi su patti e rapporti agrari (C. Romeo 1981, R. Alessi 1982) e sulla contrattazione collettiva (G. Vardaro 1984); e ancora sulla problematica delle associazioni e tutela dei singoli (ricerca comparata condotta da Diana Vincenzi Amato, 1984), fino ai più recenti come quello di A. Zoppini sulle fondazioni (1995), di M. dell’Utri su Potere e democrazia nei gruppi privati (2000) e di A.G. Cianci, su Diritto privato e libertà costituzionali  (2016).

Nella presentazione del libro, Rescigno ne coglie con piena lucidità il punto centrale che consiste nel partire dall’analisi degli interessi collettivi: le organizzazioni rappresentative dei gruppi sociali si formano e agiscono al servizio di interessi “connessi a condizioni oggettive o comunque storicamente oggettivizzate” ai quali il singolo individuo non può provvedere da solo.

Sono quegli interessi, che nelle mie riflessioni più recenti chiamo “a protezione necessaria”, che non trovano soddisfazione con le categorie del contratto e per questo richiedono strumenti sovraindividuali e quindi un gruppo sociale che riesca a soddisfarli: può essere direttamente l’ente esponenziale della collettività territoriale (il Comune, lo Stato) o un gruppo che nasce dalla capacità di aggregarsi dei singoli, uno di quelli che chiamiamo formazioni sociali intermedie.

Rescigno ha sempre avvertito il rilievo particolare del tema e la difficoltà di confinarlo in maniera rigida nelle ripartizioni del pubblico o del privato, e di spiegare con le sole categorie civilistiche i poteri che le organizzazioni sociali spesso esercitano anche sui terzi, non facenti parte dell’organizzazione che vuol tutelare non solo gli interessi degli associati ma quelli dell’intera categoria.

Riprendendo e approfondendo le riflessioni esposte nel convegno organizzato da Paolo Grossi nel 1975 a Firenze su “Libertà fondamentali e formazioni sociali”, R da un lato ribadisce, come “punto fermo” il carattere privato degli interessi e degli strumenti propri delle formazioni sociali “intermedie”, dall’altro ne mette in evidenza le problematiche irrisolte e rese evidenti dalla frequente incidenza su interessi dei terzi, fino a paventare “il rischio che gli ordinamenti particolari abbiano a comprimere o minacciare le libertà faticosamente raggiunte e garantite dall’ordinamento generale.

L’interesse alla problematica è stato presente anche alla cultura pubblicista di fine 900: basti pensare per fare un solo esempio saggio di M. Nigro, su Formazioni sociali, poteri privati e libertà del terzo, scritti in onore di C. Mortati, Milano 1977.

Va detto, però, che nel quadro complessivo della produzione scientifica sia dei privatisti che dei pubblicisti, l’interesse, pur restando presente, non ha avuto, soprattutto negli ultimi decenni il carattere centrale che aveva avuto in passato.

In effetti, chi vuole approfondire il tema delle formazioni sociali e individuare i tratti essenziali delle problematiche, deve risalire nel tempo, dal punto di vista filosofico alle elaborazioni Althusius e a quelle opposte di Bodin e Hobbes, e dal punto di vista giuridico alle elaborazioni di G.D. Romagnosi, agli inizi dell’800, e di O. von Gierke e della sua scuola di diritto sociale. La problematica mantenne carattere centrale nelle riflessioni di inizio 900 sulle persone giuridiche, ad esempio di Ferrara, di Giorgi, di Ruffini (1898), di Michoud (1905), di Maitland (1900) e poi, anche se di questi ultimi vi è stata una rimozione, nei pregevoli scritti contenuti nell’Archivio di studi corporativi:  di Santi Romano, Cesarini Sforza, Carnelutti e nel bello e sconosciuto libro di P. Gasparri, sulle Associazioni sindacali riconosciute, Padova 1939 ove è esposta i termini chiari e compiuti la teoria degli elementi degli ordinamenti giuridici nella versione poi consolidata nell’opera di M. S. Giannini.

La problematica, era ancora viva nel periodo della Costituente e portò alla bella formulazione dell’art. 2 che individuò nelle formazioni sociali la sede nella quale si sviluppa la personalità del singolo, nella sua dimensione sociale.

C’è da chiedersi perché negli ultimi tempi l’interesse su questi temi si è affievolita.

Probabilmente la ragione va ricercata nel prevalere, almeno fino a poco fa, delle tesi mercatiste che hanno affermato la primazia indiscussa del contratto portando la nozione a una tale dimensione da farle perdere i suoi connotati essenziali, fino a quella che Gilmore ha chiamato “la morte del contratto”.

Altro motivo forse può derivare dalla stessa condizione di crisi che vive lo Stato, per effetto della globalizzazione indotta dalle nuove tecnologie.

Per quanto possa apparire singolare, le formazioni sociali, non a caso definite correntemente come “intermedie”, richiedono per esistere e consolidarsi una sede ulteriore di sintesi senza la quale, del resto, non potrebbero occupare una posizione di “parte”.

È stato così anche nei periodi passati nei quali il pubblico potere si è affermato nei Comuni come sintesi delle organizzazioni “corporative”.

Resta il fatto che il problema delle formazioni sociali è stato e resta non un tema fra gli altri ma uno dei pochi costitutivi del modo di vivere e di organizzarsi delle persone e delle collettività, e che quindi merita la dovuta attenzione da parte dei giuristi.

L’approccio con il quale va studiato non è, a mio avviso, né quello esclusivo del privatista e tanto meno quello del pubblicista e non a caso molti dei migliori contributi più recenti sul tema sono stati forniti da storici del diritto (P. Grossi, R. Orestano).

L’approccio necessario, direbbe il mio maestro M.S. Gianninni, è quello di teoria generale nel quale i profili strettamente civilistici e pubblicistici non sono in grado di spiegare da soli il fenomeno.

Questa considerazione, più volte ribadita da Rescigno, dà conto di un problema che è impossibile risolvere muovendo da una rigida distinzione fra “privato” e “pubblico.

Le associazioni, liberamente create dalle persone, sono manifestazioni della loro libertà e rientrano pienamente nei parametri dell’autonomia privata e quindi del diritto privato, ma il diritto delle associazioni:

  • sta tranquillamente nel diritto privato fino a quando i poteri che esercitano producono effetti, come vuole il modello del contratto, su coloro che hanno conferito il mandato o comunque hanno aderito liberamente all’ associazione;
  • richiede invece interventi correttivi di diritto pubblico quando il loro potere produce effetti su terzi, che possono essere appartenenti alla categoria ma non all’associazione o che sono esterni ad entrambe;
  • diventa prevalentemente di diritto pubblico quando i poteri esercitati non sono in alcun modo riferibili al contratto associativo, come è nei casi di appartenenza obbligatoria ex lege con il divieto agli esterni di esercitare una attività e di continuare ad esercitarla in caso di espulsione, o di imporre tariffe ; fino ai casi in cui la stessa esistenza dell’associazione è stabilita dalla legge.

In questi casi, per altro si tratta di un “pubblico” (v. Rescigno) che ha propri tratti originali perché il dato associativo sottostante non cessa di avere rilievo, e conferma l’intuizione di Romagnosi il quale avvisava che, in realtà, non è vero che tutte le figure debbano essere “o del tutto pubbliche o del tutto private” perché vi è tra i due poli una gradazione che varia nelle singole fattispecie.

Ciò spiega come gli studiosi più attenti a questi fenomeni abbiano tentato, con la scuola del diritto sociale, di elaborare una terza via tra pubblico e privato, che meglio si adatti a sistematizzare figure che non trovano comoda collocazione nè nel codice civile nè nelle leggi amministrative.

Non è questo il periodo storico nel quale si possono fare nuove sistematiche in tutto definite. Torna, invece, urgente il problema del metodo scientifico, di un metodo cioè volto ad individuare gli elementi essenziale delle nozioni e le diverse gradazioni nelle quali i profili essenziali (come il “pubblico” e il “privato”) si compongono nelle singole fattispecie.

In questo lavoro, direbbe Papa Francesco, di “discernimento” resta fondamentale la capacità di analizzare e di comprendere i fenomeni nella loro natura e nella loro evoluzione, come ci ha insegnato a fare Pietro Rescigno.

CONDIVIDI
PREV

A proposito di società pubbliche strumentali

NEXT

La complessità amministrativa

LEAVE A COMMENT

18 + sei =

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

error: Contenuto protetto