
Alcune considerazioni sulla complessità amministrativa (… che è diversa dalla complicazione!)
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Nelle sue “Riflessioni di teoria generale” del 24 gennaio 2018 Giampaolo Rossi richiama la nostra attenzione sul tema della complessità amministrativa, osservando tra l’altro come al crescere degli interventi di semplificazione operati dal legislatore la complessità, anziché ridursi, sia aumentata e continui a farlo. Ritengo che considerare la dimensione della complessità sia oggi molto importante per l’analisi e lo studio giuridico dell’amministrazione pubblica. Di essa ho avuto modo di occuparmi in alcuni scritti recenti: provo quindi a dare un contributo al dibattito riprendendo alcune delle considerazioni che ho svolto su questo tema.
Come è stato osservato, fra gli elementi che ostacolano la semplificazione amministrativa rientrano sicuramente, da un lato, la proliferazione delle disposizioni normative che l’amministrazione è chiamata ad applicare e, dall’altro, la crescente quantità dei diritti e degli interessi di cui essa deve tenere conto nello svolgimento della sua attività.
Sotto il primo profilo, va riscontrato come anche le fonti del diritto amministrativo risentano della più generale crisi del sistema delle fonti, che rende difficile per l’amministrazione non solo attuare, ma talora anche individuare esattamente la norma che deve essere applicata. Il numero delle fonti tende a crescere in modo incontrollato, mentre la struttura degli enunciati che compongono ogni singola norma si rivela spesso fitta e quindi oscura. Ci sono innanzitutto problemi di qualità delle leggi: limiti intrinseci al testo scritto; carenze, spesso gravi, nella tecnica legislativa; un eccesso di dettaglio nei testi normativi; un’eccessiva inclinazione all’uso di un linguaggio tecnico. Poi ci sono rilevanti problemi di “densità” delle leggi. L’inflazione normativa appare ormai inarrestabile e ha tante ragioni: la numerosità degli ambiti della vita sociale regolati dal diritto; il pluralismo sociale; il policentrismo della produzione normativa; il ricorso eccessivo alle fonti di rango primario; la moltiplicazione dei “tipi” normativi, l’ampio e spesso eccessivo ricorso alla delega legislativa. Ma le leggi sono molte anche perché cambiano in continuazione, si caratterizzano per la loro volatilità e la loro instabilità, sono frammentate e spesso non attuate, dando origine a un circolo vizioso che richiede sempre nuove norme per dare applicazione a quelle precedenti.
Sotto il secondo profilo, è da notare come i diritti e gli interessi che l’amministrazione deve considerare crescano di numero e assumano una connotazione peculiare, che li rende non più immediatamente riducibili alle sole figure contrapposte dell’interesse pubblico, affidato ad una “Autorità” amministrativa, e dell’interesse del privato, a cui è diretto il comando di tale “Autorità”. Da un lato si assiste infatti alla moltiplicazione degli interessi pubblici e all’emersione di una dinamica complessa e talora conflittuale tra essi. Dall’altro, invece, ci si trova di fronte a una sorta di “esplosione” della figura del privato un tempo cristallizzata nella sola dimensione del titolare di un interesse contrapposto a quello dell’ente pubblico, che viene affiancata da molteplici figure tra loro profondamente diverse, poste in relazione non univoca con l’amministrazione e spesso in grado di influenzarne in modo evidente l’attività. Il quadro degli interessi e i rapporti fra di essi diventano quindi di per sé complessi: il soggetto pubblico non può più essere considerato solo come colui che interviene unilateralmente e in modo lineare per l’imposizione delle norme ai consociati e per decidere unilateralmente i casi concreti, il soggetto privato non è più soltanto il destinatario delle norme e dei provvedimenti, per il quale operano le garanzie dello Stato di diritto.
È inevitabile che queste trasformazioni abbiano degli effetti sul diritto amministrativo, tradizionalmente basato, da una parte, sull’idea che l’amministrazione debba (e possa!) agire sempre in applicazione di disposizioni normative precise e, dall’altra, sulla riduzione della dinamica tra i soggetti coinvolti nell’attività amministrativa a quella del rapporto fra autorità e libertà. Nella prospettiva tradizionale si tende però a considerare le trasformazioni in atto limitandosi a cogliere il “sovraccarico” che esse determinano sulle norme da applicare o sugli atti da adottare nel procedimento, intesi tutti come parti omogenee, riconducibili a una medesima logica di funzionamento e collegati in modo lineare (così da consentire, all’occorrenza, anche di intervenire su di essi con la riduzione e, al limite, con l’eliminazione).
Si guarda con preoccupazione a come il quadro delle norme e quello degli atti, strumentali all’introduzione nel procedimento dei diversi interessi in gioco, tendano a diventare sempre più com-plicati, ovvero appunto “ricchi di molte pieghe”. Si aspira di conseguenza alla semplificazione di questi quadri attraverso interventi di tipo ricompositivo o sottrattivo, rivolti alla “spiegazione” e/o alla riduzione degli elementi discreti che li compongono, con l’obiettivo di avvicinare quanto più possibile l’attività dell’amministrazione all’applicazione di uno schema normativo chiaro e prevedibile e allo svolgimento di procedure snelle e veloci. Sul piano normativo si utilizzano strumenti come il miglioramento della tecnica legislativa, la delegificazione, il riordino della normativa di settore, gli automatismi “taglia leggi”, l’uso degli strumenti per il ciclo della regolazione, il miglioramento del raccordo tra centri di produzione normativa, la previa consultazione dei destinatari e il miglioramento delle informazioni sulla normativa. Sul piano amministrativo vengono introdotti strumenti di accelerazione procedimentale, idonei ad aumentare la velocità del procedimento anche a scapito della completezza della ponderazione degli interessi, come, in modo emblematico, il silenzio assenso tra amministrazioni di cui all’art. 17 bis della legge n. 241/90. Ma come si è detto, non sempre questi strumenti si rivelano efficaci.
A me sembra che i limiti di questo approccio discendano dalla confusione che viene fatta tra la complicazione e la complessità. La prima deriva appunto dall’accumulo di norme, atti, strutture organizzative: è generalmente inutile, anzi spesso dannosa, e come tale rappresenta un problema, da contenere o da eliminare. La complessità è un fenomeno diverso, collegato direttamente dalla molteplicità degli interessi e dei valori in gioco e come tale caratteristico e ineliminabile in una società democratica e pluralista. Di essa dunque si deve prendere atto, cercando non tanto di rimuoverla ma di imparare a gestirla in modo adeguato.
La complessità non deriva dal sovraccarico di parti omogenee, ma dalla presenza di elementi vari ed eterogenei, quali appunto sono sul piano sostanziale i diritti e gli interessi a cui le norme danno rilevanza nell’ordinamento e che l’amministrazione è chiamata a ponderare nel procedimento. Essa ci chiede di entrare nella sua dimensione per studiare i fenomeni che la producono e di guardare quindi all’agire amministrativo, di per sé, come a un fenomeno cum-plexus, ovvero ricco di intrecci che riuniscono le sue componenti in una trama dove le singole parti perdono di rilievo nel loro carattere singolare e discreto e lo acquistano invece al livello del tessuto che vanno a comporre, nel quale però la loro individualità specifica si fa più sfumata e spesso difficile da percepire.
Se si adotta questa prospettiva la complessità non può essere ricondotta, sul piano normativo, solo alla difficoltà nell’individuazione della fonte da applicare, alla precisione del suo testo scritto e alla incertezza della sua interpretazione, né d’altra parte, sul piano amministrativo, solo alla inefficienza, alle lungaggini burocratiche ed ai ritardi (che pure ci sono!) dell’amministrazione nello svolgimento concreto della sua attività.
Sul primo piano, l’origine della complessità sta nel fatto che né il legislatore, né l’amministrazione operano in uno scenario in cui le fonti del diritto possono essere intese come entità discrete, tra loro agevolmente sommabili e integrabili all’interno di un quadro ordinato, così da formare un insieme di cui si possa affermare la chiarezza, la completezza, la coerenza, la non ridondanza, la trattabilità e la prevedibilità. Anche se tutte le fonti si presentassero con i caratteri della semplicità, della chiarezza, della totale prevedibilità – e dunque anche se non ci fosse complicazione – il loro numero, l’interferenza fra di esse e le inevitabili interazioni da esse attivate fra i soggetti chiamati a produrle e ad applicarle determinerebbero comunque dei problemi nel rapporto fra chi pone il diritto e chi lo deve attuare nei casi concreti. Si tratta di problemi derivanti dall’inevitabile complessità del sistema, che appunto è indotta dal numero e dall’interazione delle sue componenti, oltre che dai loro caratteri specifici.
Sul piano dell’amministrazione, invece, la complessità deriva dal fatto che il procedimento amministrativo non è soltanto una sequenza lineare di atti predefinita dalla norma, in cui i singoli atti sono presenti come entità discrete e distinte, che in caso di crescita eccessiva possono essere ridotti o eliminati senza particolari conseguenze, per ridurre il sovraccarico della sequenza. Il procedimento è anche, e soprattutto, la sede del confronto tra gli interessi in gioco. Sono proprio la varietà di questi ultimi e la dinamica del loro confronto a rendere il procedimento un fenomeno complesso, ovvero ricco di intrecci che riuniscono le sue componenti in una trama dove i singoli interessi non assumono rilievo solo nel loro carattere singolare e discreto, ma anche al livello del tessuto che vanno a comporre, il quale deve sempre essere considerato in termini complessivi, pena la sua lacerazione.
Il punto mi sembra proprio questo: le attuali difficoltà dell’amministrazione non derivano solo dalla complicazione del quadro normativo da applicare o delle sequenze procedimentali da svolgere, ma trovano la loro origine nel fenomeno ben distinto della complessità dell’agire amministrativo che va studiata quindi come condizione da cui muovere e non come problema da eliminare!
Si deve così cominciare, ad esempio, a reimpostare il discorso sulla legittimità dell’attività amministrativa, abbandonando l’idea che il sistema normativo possa presentarsi come una struttura che si impone dall’esterno ai consociati, come un «universo statico di regole pronte per l’uso», come un dato oggettivo a cui l’interprete può attingere per dedurre da esso la regola del caso, bensì piuttosto come un «complesso di materiali, tratti da fonti diverse, che interagiscono tra loro combinandosi in modo mai definitivo» (secondo le efficaci espressioni di B. Pastore).
Un punto centrale, dunque, diventa quello relativo ai feedback che si possono determinare nelle connessioni tra il legislatore che adotta le disposizioni normative e l’amministrazione che è chiamata ad applicarle, cominciando ad impostare diversamente il discorso sulla natura esecutiva dell’attività amministrativa e, in definitiva, sullo stesso fenomeno della discrezionalità. Mentre nel modello tradizionale si dà per scontato che la previsione normativa condizioni in modo lineare e univoco l’amministrazione chiamata ad applicarla – o almeno sia in grado di farlo se correttamente formulata – quando si considera adeguatamente la dimensione della complessità diventa possibile attribuire il giusto rilievo al fenomeno per cui nella realtà spesso l’interprete è in grado di interferire con la produzione della norma giuridica, con un feedback che se correttamente gestito può diventare utile per l’equilibrio del sistema. La comprensione di queste forme di retroazione è necessaria per la gestione della complessità ed esse vanno quindi considerate non tanto nel senso della loro riduzione o della loro eliminazione – rincorrendo una irraggiungibile chiarezza e completezza del testo normativo, in grado di vincolare completamente l’operato dell’interprete – bensì piuttosto nel senso del loro corretto orientamento in senso “omeostatico”, quali elementi di equilibrio in grado di mantenere il sistema al riparo da fluttuazioni eccessive.
Nella stessa prospettiva, si deve smettere di considerare la semplificazione solo in senso sottrattivo, come riduzione o eliminazione degli interventi dell’amministrazione. Gli sforzi di semplificazione devono essere orientati prima di tutto alla individuazione di strategie e metodi per affrontare la varietà insita nella complessità del sistema amministrativo senza farsi sopraffare da essa, ma al tempo stesso senza annullarla, basandosi su un più efficace coordinamento tra le diverse amministrazioni, su una migliore circolazione delle informazioni e sul potenziamento della loro capacità di comprensione dei fenomeni del mondo reale.
La semplificazione va concepita secondo in una prospettiva d’insieme, capace di considerare, utilizzare e coordinare interventi diversi, distinguendo a seconda che i suoi effetti siano interni all’amministrazione e coinvolgano le relazioni tra uffici, oppure siano esterni all’amministrazione e coinvolgano relazioni con altre pubbliche amministrazioni, o ancora siano esterni e riguardino relazioni con i privati.
Per semplificare occorre così innanzitutto verificare e razionalizzare l’effettivo carico di lavoro delle varie amministrazioni competenti al rilascio degli atti da cui derivano effetti particolarmente “complicanti” (si pensi ad esempio ad autorizzazioni e atti di assenso comunque denominati), cercando di reclutare e formare al loro interno funzionari specificamente competenti nelle materie in cui tali atti sono richiesti, spesso notevolmente complesse anche sul piano tecnico. Del pari, occorre cercare di favorire l’apprendimento organizzativo nell’amministrazione, inteso come capacità dell’amministrazione di comprendere le peculiarità delle situazioni che affronta attraverso la continua acquisizione di informazioni e la creazione di schemi di comportamento idonei ad affrontarle in modo flessibile e dinamico. Rispetto a questo, strumenti di semplificazione di tipo sottrattivo, come il già citato silenzio assenso tra amministrazioni, non solo non si rivelano efficaci, ma diventano anche potenzialmente dannosi. Se infatti da un lato possono contribuire a ridurre almeno in parte la complicazione, eliminando le conseguenze dei ritardi che l’amministrazione chiamata a dare il suo assenso crea per il fatto di operare in modo inefficiente, dall’altro rendono possibile che situazioni oggettivamente complesse vengano affrontate senza che l’amministrazione competente possa intervenire perché oggettivamente impossibilitata a farlo e soprattutto senza dare ad essa la possibilità ed il tempo necessari per apprendere come farlo, attraverso la gestione della loro complessità.
Nei rapporti fra amministrazioni, poi, occorre superare le difficoltà del dialogo e annullare in radice il potere di veto che sulla base della distribuzione formale delle competenze ogni amministrazione è in grado di esercitare rispetto al flusso complessivo dell’attività, introducendo in essa rilevanti fenomeni di complicazione. Per questo, ad esempio, occorre cominciare a prendere finalmente sul serio i criteri organizzativi già previsti dall’art. 2 del D. Lgs. n. 165/2001 – vale a dire il dovere di comunicazione interna ed esterna, l’interconnessione, l’ampia flessibilità e la funzionalità rispetto ai compiti – imponendo all’amministrazione di metterli in pratica anche quando questo richiede di superare la distinzione verticale delle competenze.
Nei rapporti con i privati, infine, occorre fare un’ulteriore distinzione fra, da un lato, gli interventi da cui la semplificazione può essere ottenuta con una riduzione dell’intervento dell’amministrazione, che deve “lasciar fare” i titolari degli interessi sufficientemente “forti” da poter perseguire da soli la propria realizzazione, e, dall’altro, gli interventi in cui la semplificazione deriva da un aumento dell’efficienza e dell’efficacia di un’amministrazione “che fa” a vantaggio degli interessi “deboli”, che hanno bisogno del suo intervento per poter essere tutelati. Rispetto a questi ultimi, in particolare occorre operare per migliorare la capacità del privato di interagire con la pubblica amministrazione, favorendo un percorso di “capacitazione” dei cittadini e delle imprese, rivolto a renderli consapevoli di come è articolata e come si svolge l’attività dell’amministrazione e di porsi quindi di fronte ad essa su un piano maggiormente paritario, con capacità propositiva e con un atteggiamento collaborativo, idoneo come tale a ridurre la complicazione.
Insomma, mi sembra che se si cerca di entrare nella dimensione della complessità amministrativa senza farsi attrarre dalla logica puramente sottrattiva del “pensiero semplificante” (come lo ha definito in modo efficace, sul piano epistemologico, E. Morin) si aprano grandi prospettive di intervento per arrivare davvero ad una maggiore efficienza e ad una maggiore efficacia dell’attività amministrativa. E, probabilmente, anche spazi per la ridefinizione di diversi istituti tradizionali del diritto amministrativo.