Per un’Unione europea efficace, legittimata da risultati effettivi e positivi

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Il testo del contributo è in corso di pubblicazione nel volume “Europa, sfida per l’Italia”, a cura di M.Dassù, S. Micossi, R. Perissich, LUISS University Press, 2017.

La tesi qua proposta è che l’iniziativa dell’Unione europea si concentri su misure concrete che diano risultati rapidi, positivi e tangibili ai cittadini europei, dimostrando che l’Unione non è un orpello; ma, al contrario, una condizione essenziale per il loro benessere. E’ la prospettiva della legittimazione dell’UE “per risultati”, tanto ovvia quanto nei fatti negletta. Molto resta, in effetti, da fare; ad iniziare dal riportare la questione della legittimazione dell’UE alla dimensione funzionale della legittimazione da output e, poi, assicurare effetti e risultati positivi.

Sin dal trattato di Roma istitutivo della CEE è stata posta la questione della legittimazione della nuova Comunità, considerata carente nella prospettiva tradizionale della legittimazione democratica, da input. Lo stesso anche nei successivi passaggi istituzionali che progressivamente ampliavano il ruolo del Parlamento europeo, riconoscevano la cittadinanza europea, configuravano l’Unione come ordinamento genuinamente politico. Ancora pochi anni fa uno dei più noti esperti dell’UE (J. Weiler) rilevava che non c’è nessun atto civico del cittadino europeo con cui questo possa influenzare direttamente l’esito di qualsiasi scelta politica dell’Unione.

La tesi del c.d. deficit democratico, divenuta ben presto vulgata, ha fatto danni al processo di integrazione europeo in modo profondo. Malgrado che la maggior parte dei critici sperasse così di favorire riforme risolutive per pervenire alla democraticità del sistema, alla piena garanzia del Rule of Law e dei diritti umani, l’effetto – non tanto paradossale – è stato di dar una patente di nobiltà alle voci oppositive più sgangherate, che strumentalmente vi ritrovano una conferma delle critiche all’UE come elefante burocratico ed intrusivo. I popoli europei hanno infatti avuto il messaggio, proposto autorevolmente, che l’effetto diretto del diritto comunitario non fosse accompagnato dalla collocazione effettiva del cittadino al centro dell’ordinamento dell’UE.

Oltre a questo effetto politico quasi letale, la tesi del deficit di legittimazione democratica è stata fuorviante sui caratteri istituzionali della CE e dell’UE, perché considerati una mera variante della “forma Stato”. Così, anziché cogliere la novità assoluta del sistema comunitario quale forma di potere pubblico sovranazionale, si è continuato ad usare lo Stato come parametro di ogni giudizio sulle forme di legittimazione. Analogamente, ci si è riferiti alla nozione tradizionale della democrazia, come se fosse un’invariante rispetto ai diversi contesti ordinamentali; mentre è acquisito che si tratti di nozione da coniugare con la diversità dei livelli, delle culture e dei contesti istituzionali.

In ogni caso, pur se l’UE non è uno Stato, sono stati compiuti progressi davvero significativi anche nella prospettiva tradizionale; che avrebbero comportato comunque un ripensamento della vulgata. Basti considerare il miglioramento del processo decisionale delle istituzioni, la politicizzazione/democratizzazione dei vertici istituzionali dell’Unione, il definitivo superamento del ruolo ancillare del Parlamento europeo.

Più in generale, a partire dal trattato di Amsterdam la democrazia è finalmente qualificata come uno dei valori su cui si fonda l’Unione; meglio rifinito nel vigente trattato di Lisbona, che vi dedica gli artt. 9-12 del TUE. Inoltre, è centrale il concetto di cittadinanza europea di matrice repubblicana (oltre al TUE, nella Carta dei diritti fondamentali). Ne consegue un’originale democrazia multilivello in cui il concetto di “popolo” rimane prerogativa degli Stati membri, mentre l’Unione si incentra sul concetto di cittadinanza.

Tuttavia, i progressi della legittimazione democratica dell’UE hanno tempi e modalità che, da un lato, non possono rapportarsi a quelli propri degli ordinamenti statali; dall’altro, non risolvono il problema principale dell’UE, ora drammaticamente messo a crudo: la limitatezza dei risultati positivi che l’UE ha assicurato ai cittadini europei, oltre alla fondamentale meta, raggiunta da tempo, della pace e della sicurezza.

Per risolvere il problema della crescente disaffezione – se non addirittura della contestazione – dei cittadini europei verso l’UE, è necessario volgere la questione della legittimazione dell’UE verso il conseguimento dei risultati, dell’effettività dell’azione comunitaria. In breve, va integrato il tradizionale approccio della legittimazione dell’UE per partecipazione e rappresentanza con quella della “legittimazione per risultati”, altrimenti nota come “output legitimation”.

E’ una riscoperta di un dato che caratterizzava il processo di integrazione sin dall’istituzione della CECA nel 1951 (si ricorda nel Preambolo il riferimento alla “solidarietà di fatto”), poi lasciato sempre più in ombra nella fase della costituzionalizzazione dell’ordinamento comunitario – “ordinamento di nuovo genere”, come definito in una celebre sentenza del 1963 – ad opera, prima, della Corte di giustizia; poi, del trattato di Maastricht e dei successivi sviluppi. Ma che ora trova nel trattato di Lisbona una serie di riferimenti, che merita valorizzare e trasmettere ai popoli europei.

Essendo desolante constatare quanto poco il tema della legittimazione per risultati sia considerato dalle istituzioni dell’UE e dagli statisti degli Stati membri, la proposta che qua si presenta è che l’UE deve connotarsi quale particolare organizzazione politica basata su due forme, complementari e sinergiche, di legittimazione: quella tradizionale, democratica, basata sull’originale forma di rappresentanza a due livelli, europeo e nazionali, che si connettono attraverso la cittadinanza europea; l’altra basata sull’effettività delle decisioni assunte e realizzate, sulla satisfattività dei risultati dei processi decisionali.

La “legittimazione per risultati” deve impegnare strenuamente l’UE, perché le politiche europee possono oggi essere accettate come legittime dei popoli dell’Europa solo se producono risultati concreti e positivi, orientati tanto agli interessi comuni quanto alla garanzia della molteplicità degli interessi particolari presenti in Europa, che sono ricchezza di questo continente.

Come detto, la output legitimation trova nel trattato di Lisbona e nel recente diritto derivato una quantità di riferimenti. Basti pensare ai principi sulla pubblica amministrazione europea e nazionale (specialmente l’art. 197, con il riferimento all’attuazione effettiva del diritto comunitario, e l’art. 298, con il riferimento all’amministrazione europea quale “aperta, efficace e indipendente”); alle molte disposizioni sulla Banca centrale europea e l’unione bancaria; a quelle sulle nuove autorità di regolazione; e così via. La giurisprudenza della Corte di giustizia sta dando supporto a queste novità, come dimostrano le sentenze sui poteri della BCE e sugli organismi per la protezione dei dati nazionali.

La reconquista europeista dei popoli dell’UE è ancora possibile, a condizione di non congelare la cittadinanza europea in una dimensione meramente giuridica; ma assicurando un valore aggiunto rispetto alla cittadinanza nazionale, con risultati effettivi e tangibili.

Un approccio funzionale come quello che qua si propone non è immune da rischi. Calcando troppo sui risultati, sul tecnicismo, si può cadere da una situazione di deficit democratico in un’altra di deficit politico, si può scivolare verso un sistema tecnocratico, non responsabile e controllabile.

Prima di pensare ai rischi (peraltro remoti, vista la reattività democratica dei popoli dell’Unione) occorre però assicurare che le istituzioni funzionino davvero in modo efficace. Oggi così non è. Non si tratta di un rischio, ma di una certezza.

Infatti, i risultati sono parziali ed opachi; nel complesso deludenti. Anche sul tema cruciale della cittadinanza europea i risultati non sono pari alle attese; ne fa fede il recente EU Citizenship Report 2017 della Commissione, ove si elencano una serie di misure che, per carattere e tempi di realizzazione, sembrano pensate per tempi di massimo consenso per l’Unione, non certo per quelli procellosi attuali.

Vi è poi la questione, se possibile ancora più dannosa della precedente, delle riforme avviate, ma non completate; anche in settori cruciali per i cittadini europei. Due esempi importanti: uno di riforme rimaste del tutto sulla carta; l’altro, di riforme avviate, ma non completate.

Il caso esemplare di riforme finora rimaste sulla carta è quello della disciplina dell’azione dell’amministrazione comunitaria. Nella prospettiva della output legitimation l’amministrazione ha un ruolo essenziale, quale fattore di realizzazione delle politiche dell’Unione. Sinora la disciplina dei procedimenti amministrativi comunitari è stata di tipo speciale, caso per caso; oppure semplicemente ispirata ai principi generali (proporzionalità, legittimo affidamento, ecc.). E’ diffusa una giusta insoddisfazione  per la qualità dell’azione amministrativa, a causa della lunghezza delle procedure, la mancanza di trasparenza, la carenza di adeguate motivazioni.

Per ovviare a questa situazione, che come si comprende, non ha certo aumentato l’affezione per l’UE, il Parlamento europeo ha approvato nel 2015 a larghissima maggioranza una risoluzione dettagliata con cui ha sollecitato la Commissione per un’iniziativa legislativa, in forma di regolamento, per la disciplina generale del procedimento amministrativo. La proposta di regolamento è in linea con l’esperienza dei maggiori Stati membri e consolida i principi generali elaborati dalla giurisprudenza.

Malgrado il larghissimo consenso ottenuto nel Parlamento europeo dalla proposta, la Commissione non ha ancora avviato la procedura per il nuovo regolamento; anzi, pare decisamente contraria.

E’ evidente che in questo modo si vanifica uno dei pilastri per un’efficace ed aperta azione dell’Unione, nonché un principio chiave della Carta dei diritti fondamentali, il diritto ad una buona amministrazione (art. 41). La “cittadinanza amministrativa” subisce così un duro colpo; l’UE non vuole applicare a sé stessa quello che impone come regola agli Stati membri e che molti di questi hanno già assunto per autonome decisioni.

Il caso esemplare delle riforme a metà è l’unione bancaria, realizzata dopo la crisi del 2008 con speditezza ed efficacia nelle due prime parti (i nuovi modelli europei di vigilanza e di risoluzione), ma non ancora nella terza parte (il modello comune di garanzie bancarie) su cui pendono resistenze politiche che ne stanno procastinando l’istituzione per un tempo ancora imprevedibile. In tal modo, i moltissimi cittadini europei interessati alle vicende bancarie vedono operante la faccia del problema più dura e del tutto diversa dalla tradizione – in particolare la risoluzione con il modello bail in – senza un sistema davvero comune di garanzie bancarie, oltre alle parziali (anche se pur sempre apprezzabili) forme di garanzia assicurate dalla direttiva 2014/59. In sostanza, una riforma davvero buona ed organica lasciata incompiuta che avrebbe potuto essere uno dei maggiori output dell’Unione negli ultimi decenni e che invece per ora ha l’effetto negativo di accentuare le rimostranze contro l’Unione.

Per concludere, l’Unione europea può riprendere quota nel consenso degli europei se riesce ad affermare un approccio concreto, mirato a risultati effettivi. Non è mai troppo tardi per mettere da parte totem del dibattito pubblico – come il preteso deficit democratico – che di fatto per decenni hanno intralciato il cammino dell’integrazione.

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