
La Questione Europea
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Sommario: 1. Il carattere strutturale della crisi dell’Unione Europea — 2. Il vizio di origine e l’inadeguatezza della parziale correzione — 3. “Qui si fa l’Europa o si muore”, ma non c’è nessuno che lo dica — 4. La graduale costruzione dell’Europa federale, a cerchi concentrici, “dal basso”, attraverso la cooperazione rafforzata: reti, infrastrutture, sicurezza e welfare di base, cultura. politiche di settore — 5. Nuovi approcci di studio per la scienza del diritto pubblico.
1. Il carattere strutturale della crisi dell’Unione europea
Le istituzioni europee sono in crisi evidente.
Le riflessioni che seguono sono state scritte prima del referendum nel Regno Unito, ma non è stato poi necessario apportarvi variazioni perché, anzi, possono contribuire a spiegare l’esito referendario.
– L’evidente contrasto fra la povertà di gran parte dei paesi dell’Africa e dell’Asia e il welfare di quelli europei, determina grandi flussi migratori. Le guerre in atto accentuano il fenomeno, che ha però radici più profonde nell’incompatibilità fra l’apertura degli Stati e gli squilibri economici e sociali fra le diverse parti del mondo, e ciò si verifica anche nell’rapporto fra gli Stati che fanno parte dell’Unione europea. I singoli Stati non sono in grado di affrontare il problema se non richiudendosi, ma una chiusura eccessiva e prolungata, anche al di la di valutazioni etiche, recherebbe gravi danni alla loro economia.
– Per i Paesi dell’Euro, la “crisi fiscale” degli Stati rende impervio l’equilibrio di bilancio richiesto dalla moneta unica. Si determina un circolo vizioso: le misure di risanamento dei bilanci confliggono con l’obiettivo della crescita, necessaria per il risanamento degli stessi.
– Le recessioni economiche sono sempre state affrontate dagli Stati con tre misure: manovra monetaria, espansione del debito e aiuti alle imprese o/e loro pubblicizzazione. Gli Stati membri dell’Unione europea hanno perso in tutto o in parte la disponibilità di queste misure senza che il corrispondente potere venisse assunto in misura significativa dall’Unione. Vi è in Europa un vuoto di potere superiore a quello che già hanno tutti gli Stati per la difficoltà a controllare la finanza internazionale. L’Unione Europea, seguìta in ciò pedissequamente dalle Autorità nazionali della concorrenza, impedisce la formazione di “campioni nazionali”, di imprese pubbliche o privati che acquisiscano dimensioni capaci di affrontare la concorrenza globale, ma non ne crea dei propri.
Invertendo una frase di Jean Monnet, che teorizzava una Europa che non fait, fait faire, si potrebbe dire che l’Europa non fait et non fait faire.
– In ogni Paese membro le spinte ostili all’Unione si stanno moltiplicando e i consensi sono sempre più tiepidi. L’uscita del Regno Unito ne dà una conferma.
– L’assenza di una politica estera comune si riflette in iniziative unilaterali di Stati membri che danneggiano gli altri (come la guerra alla Libia) e nella incapacità di svolgere un ruolo nel contrasto ai conflitti armati (guerra in Siria).
E’ chiaramente sbagliato ascrivere questa situazione di crisi a una serie di cause puntuali: la crisi ha carattere strutturale. Questo modello istituzionale corre seri rischi di sopravvivenza.
2. Il vizio di origine e l’inadeguatezza della parziale correzione
Il mercato comune e la moneta unica europea sono stati realizzati senza i presupposti che ne consentono il mantenimento nel lungo periodo.
Scopo principale dell’Unione è quello di regolare al proprio interno i rapporti fra gli Stati membri, e il metodo più semplice è imporre il libero mercato, o meglio il mercato comune, e di contrastare gli squilibri fra spese e entrate nei bilanci nazionali per impedire che scarichino sui paesi “virtuosi” l’onere delle spese sostenute senza corrispondente copertura.
Allo scopo iniziale si sono poi aggiunti scopi ulteriori nei trattati successivi, in particolare in quelli di Maastricht e di Lisbona, che hanno attribuito all’Unione compiti che hanno diretta attinenza agli interessi dei suoi “cittadini”: libertà, sicurezza, giustizia, sviluppo economico, piena occupazione, progresso e protezione sociali, tutela dell’ambiente, benessere dei suoi popoli (art 3 c. 1,2,3 TUE); è compito dell’Unione affermare e promuovere i suoi valori e interessi, per la protezione dei suoi cittadini, nella relazioni con il resto del mondo (c.5). Al di la di queste enunciazioni, l’Unione “agisce esclusivamente nei limiti delle competenze che le sono attribuite dagli Stati membri nei trattati” (art. 5), sia pure con qualche margine di interpretazione evolutiva che viene dalla previsione dei c.d. “poteri impliciti” (art. 352 TFUE) che consente all’Unione di intervenire, anche in assenza di una apposita competenza assegnatale, quando lo richieda il perseguimento di uno dei suoi scopi nel funzionamento del mercato comune.
L’implementazione delle competenze europee si è avvalsa della natura indefinita delle funzioni relative alla concorrenza, essendo questa non una materia ma un profilo che attraversa gran parte delle altre. Così pure la “materia” ambientale ha consentito alla Commissione di assumere la titolarità di attribuzioni su una molteplicità di settori.
Ulteriori e significativi ampliamenti dello “spazio giuridico europeo” si sono avuti attraverso le interpretazioni estensive che ne ha dato la Corte di giustizia europea, l’unico organo che sembra poter decidere da solo l’ambito delle proprie competenze e lo ha fatto in modo consistente e utile per rafforzare il processo unitario, e nei tempi più recenti, la Corte europea dei diritti dell’uomo dopo il recepimento nell’ordinamento europeo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (CEDU). E’ in atto, per questa via, un processo di “unitarizzazione” attraverso i diritti fondamentali comunitari (M.P.Chiti,P.M. Huber, J. Garcìa Roca, P.A.Fernàndez Sànchez) che ha sollevato qualche riserva ma più spesso entusiastiche adesioni.
Particolarmente intensa è stata la produzione normativa europea in materia di servizi di interesse generale in considerazione del “loro ruolo nella promozione della coesione sociale e territoriale” (art. 14 TFUE) fermo restando però che è compito degli Stati assicurarne la soddisfazione.
Sul piano operativo sono stati poi creati vari organismi finanziari di intervento nell’economia, in particolare la Banca Europea per gli investimenti (BEI), il Fondo Europeo per gli investimenti (FEI), il Fondo Strategico Europeo per gli investimenti (EFSI) che si sono aggiunti a vari fondi operanti da tempo per il sostegno all’agricoltura e per altre finalità sociali e culturali. Sono stati rafforzati, ancora con molte limitazioni nonostante i pregevoli sforzi di interpretazione estensiva da parte di Mario Draghi, i poteri della Banca Centrale Europea (BCE) e si cerca di varare, con molte resistenze, il Piano di investimenti per l’Europa (Juncker).
Le Agenzie europee sono prevalentemente di regolazione ma alcune hanno compiti operativi, come l’Agenzia spaziale europea. Quando l’Unione ha funzionato verso l’esterno ha ottenuto risultati significativi, per esempio nel contrasto all’elusione fiscale e agli abusi di posizione dominante delle multinazionali dell’informatica. Anche la trattativa con gli USA sulla zona di libero scambio viene condotta dall’UE con posizioni di forza che non avrebbero i singoli Stati.
A fronte della crisi economica, per adottare misure non previste dai trattati si è ricorsi ad appositi accordi di diritto internazionale creando un Meccanismo di Stabilità Europeo (MES) con un Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria (FESF), strana figura di diritto privato lussemburghese che richiederà alla dottrina uno sforzo per darne una spiegazione giuridica (M.P.Chiti). Sono figure al di fuori del diritto dell’Unione (G.L.Tosato) ma per varie vie la Commissione e la Corte di giustizia trovano modo di occuparsene. La Corte di giustizia ne ha stabilito la legittimità, in quanto aggiuntivi e non contrastanti con il diritto dell’Unione (C.G. sent. Pingle c. 370/12).
È concorde l’osservazione che si è ormai formato un diritto amministrativo europeo di consistente spessore che comprende il “diritto ad una buona amministrazione” (art.41 Carta di Nizza) tanto che l’Unione viene da alcuni definita “una comunità basata sul diritto amministrativo” (J. Schwarze) ma si sono diffusi anche gli studi di diritto costituzionale europeo.
La pervasività è quantitativa: i Trattati di diritto europeo che sono stati scritti in tutti i Paesi coprono ormai quasi tutte le tematiche dei diritti nazionali, ma è in primo luogo qualitativa: alcune forme di unificazione sono più intense di quelle che si hanno in uno Stato federale (P.M.Huber), per certi profili anche con una sottovalutazione disinvolta di tradizioni costituzionali nazionali che potrebbero essere rispettate anche all’interno di uno Stato federale (A. von Bogandy).
Il tratto prevalente è, però, quello volto a fornire un quadro comune entro il quale si possa svolgere la competizione fra gli Stati membri: nessuna di queste misure è stata sufficiente per risolvere le crisi prima indicate e per determinare nelle popolazioni la sensazione che i loro problemi possono essere risolti dall’Unione europea. Anche quando un diritto fondamentale viene affermato in sede europea è compito degli Stati soddisfarlo.
Resta la fragilità di un assetto istituzionale asimmetrico nel quale gli Stati sono i soli destinatari della domanda sociale di sviluppo, lavoro, sicurezza, assistenza e prestazione dei servizi essenziali ma non dispongono dei poteri necessari per farlo. La sfasatura finisce per coinvolgere il funzionamento del sistema democratico perché non vi è corrispondenza fra la domanda e i mezzi di cui sono destinatarie le istituzioni.
La prevalenza, anche se non più esclusività, del compito dell’Unione di impedire comportamenti degli Stati lesivi degli interessi degli altri Stati membri, fa sì che l’Europa venga vissuta dall’opinione pubblica come un fattore di divieti e di rigidità che diventano insostenibili in una situazione di crisi. La polemica contro i “burocrati di Bruxelles” è, insieme, giusta e ingenerosa perché esercitano il compito che è stato loro assegnato.
3. “Qui si fa l’Europa o si muore”, ma non c’è nessuno che lo dica
Con pochissime eccezioni che non hanno mai avuto effetti duraturi, le analisi storiche dimostrano in modo inequivocabile che “la quantità fa virtù”. Nelle storie locali è sempre rilevabile la prevalenza degli aggregati più grandi su quelli più piccoli. La stessa prevalenza si è avuta nei rapporti fra gli Stati: in Europa i due Stati divisi al proprio interno, la Germania e l’Italia non avevano avuto la possibilità di espandersi come gli altri e quando si sono unificati sono ricorsi alla guerra per farlo.
La quantità consente di concentrare le risorse e di fare economie di scala. In un contesto mondiale nel quale vi sono Paesi che hanno una dimensione sub continentale e vari altri di grandi dimensioni, quelli europei non hanno da soli una effettiva possibilità di svolgere un ruolo significativo. Per l’Italia si aggiunge poi una ragione ulteriore che dovrebbe indurla ad auspicare l’unificazione europea: il rovescio della medaglia della grande creatività del popolo rende particolarmente difficili le sintesi; la disponibilità all’aggregazione vi è solo quando vi sono grandi motivazioni.
Ci si trova in una situazione analoga a quella che in passato rese evidente la necessità di unificazione del Paese. La consapevolezza che si dovesse realizzare l’unità dell’Italia era così radicata, nelle menti più consapevoli, che molti giovani vi sacrificarono la vita. La frase “qui si fa l’Italia o si muore” del luogotenente di Garibaldi Nino Bixio ne è una fra le tante testimonianze.
Non vi è oggi una analoga motivazione ideale per l’unità europea sia perché non si vive in un clima di grandi motivazioni sia perché la consapevolezza della ineluttabile alternativa fra una scelta europea e il declino non è maturata. Anche le componenti politiche, culturali e religiose che ne sono consapevoli sono rimaste fin qui irretite nelle questioni nazionali e locali. Sembrano ormai lontane le parole con le quali Alcide De Gasperi concluse il suo ultimo intervento pubblico al Congresso di Napoli del 1954, con un omaggio “alla nostra patria Europa, che sta in cima ai nostri pensieri e ai nostri interessi”. L’unico forte e accorato richiamo viene da Papa Francesco, ed è rivolto anche alle chiese.
Eppure l’unificazione europea trova fondamento su basi ideali facilmente percepibili. I Paesi che fanno parte dell’Europa hanno un radicato rispetto dei diritti dell’uomo e svolgono un ruolo attivo per renderli effettivi, il pubblico potere è ormai configurato in termini di servizio ed è sottoposto al diritto. Una Europa federale, rivolta all’esterno anziché chiusa in se stessa, può dare al mondo un grande contributo positivo.
4. La graduale costruzione dell’Europa, a cerchi concentrici, “dal basso”, attraverso la cooperazione rafforzata: reti, infrastrutture, sicurezza e welfare di base, cultura, politiche di settore
L’Unione europea è indispensabile; l’attuale modello non funziona; non è ora percorribile la strada di una riforma costituzionale che verrebbe bocciata. Come si risolve questo intricato problema?
Le proposte sono numerose ma hanno per lo più il comune profilo di non essere inquadrate in un disegno strategico complessivo, che manca, dando l’impressione di una evoluzione di tipo occasionale, e che invece sarebbe necessario per connettervi una motivazione ideale.
Anche le proposte dei 5 Presidenti (21.6.15) sono prevalentemente rivolte alle misure di tipo economico e finanziario e, sul piano istituzionale, la principale è di rafforzare i poteri del Parlamento Europeo. E’ una proposta che si fa da varie parti, che vorrebbe ovviare al gap di legittimazione democratica delle istituzioni europee, ma, al di là delle dispute sul carattere autocratico o indirettamente democratico di quelle attuali, il Parlamento Europeo, per quanto opportunamente rafforzato, non sarebbe in grado di risolvere l’asimmetria prima indicata tra i destinatari della domanda sociale e le istituzioni in grado di darle risposta perché non dispone della leva fiscale e dei conseguenti poteri di spesa.
Altre proposte riproducono o accentuano il difetto di configurare l’Unione come un fattore di vincolo: così è quella avanzata dai Governatori delle Banche tedesca e francese della istituzione di un Ministro europeo del tesoro che dovrebbe avere il potere di porre veti sulle approvazioni dei bilanci nazionali (!). Ben diverso sarebbe se, come proposto dal Governo italiano, il Ministro europeo del tesoro avesse piuttosto un proprio budget da utilizzare anche per interventi di carattere sociale. Le popolazioni potrebbero in tal caso apprezzare direttamente i vantaggi delle politiche europee. Così avverrebbe anche se si approvassero altre misure che sono state proposte dallo stesso Governo, come la creazione di una polizia europea di frontiera e di un fondo europeo che aiuti i Paesi dai quali provengono le immigrazioni, con l’effetto di scoraggiarle.
Si potrebbe, in particolare, percorrere la via di accordi internazionali fra alcuni Paesi o utilizzare lo strumento della cooperazione rafforzata, prevista dal Trattato di Lisbona, tra i 6 Paesi fondatori ai quali non si vede perché non aggiungere la Spagna e il Portogallo e anche l’Austria, se non prevarranno gli orientamenti regressivi. Si porterebbero così i Paesi partecipanti al numero di 9 richiesto dal TUE (art.20, 2°c.) come il minimo per autorizzare la cooperazione rafforzata.
Si formerebbe così una Europa a cerchi concentrici che consentirebbe, insieme, di rafforzarla nel suo nucleo centrale e di allargarla, con diversi gradi di cessione/acquisizione di poteri purché sempre corrispondenti alla perdita/acquisto di doveri. Già oggi, del resto, vi è una Europa a più velocità: alcuni Paesi fanno parte dell’Euro altri no, vi è un patto separato con l’Inghilterra e vi sono accordi internazionali, come il MES, non sottoscritti da tutti i 28 Paesi. Si può così bypassare la regola dell’unanimità che è una vera sciocchezza.
L’Europa, a partire dai Paesi che decidano di rafforzare la loro integrazione, può dare alle popolazioni più sicurezza e una maggiore garanzia del soddisfacimento dei bisogni essenziali.
All’interno di un disegno organico, che può anche essere deciso in un documento non avente valore giuridico, si possono potenziare i processi unitari alcuni dei quali hanno già avuto un inizio: rafforzamento dei diritti sociali europei attraverso i servizi economici di interesse generale, progetti comuni nella ricerca scientifica e nello spazio, forze di frontiera e di assistenza agli immigrati, moltiplicazione di progetti Erasmus, iniziative culturali e cinematografiche, finanziamento di programmi di sviluppo (compreso il Piano Juncker che potrebbe non riguardare i Paesi che non lo desiderano), armonizzazione (non omogeneizzazione) dei livelli base di istruzione, programma di assistenza essenziale, unificazione con forme consortili delle reti dell’energia, del gas, dei trasporti e delle poste, cooperazione allo sviluppo di altri Paesi con programmi integrati e cogestiti.
Tutto ciò spostando gradualmente, con un piano pluriennale, quote dei bilanci nazionali nel bilancio dell’Unione.
Si possono poi promuovere nuove misure istituzionali all’interno del sistema costituzionale vigente o con modifiche puntuali: il rafforzamento della Banca Centrale Europea e l’unificazione del sistema bancario, la creazione di una polizia europea, la condivisione di nuclei di forze armate, l’armonizzazione delle politiche fiscali, la creazione in settori strategici di alcune imprese europee pubbliche o a capitale misto.
Il metodo proposto è in sostanza analogo a quello utilizzato da Jean Monnet nel promuovere l’istituzione della CECA. Nel Memorandum del 28 aprile 1950, Monnet, rilevate le difficoltà che incontrava l’idea di unità politica dell’Europa, scriveva che “da una situazione simile si può uscire in un solo modo: con una azione concreta e risoluta su un punto limitato ma decisivo, che provochi un cambiamento fondamentale su questo punto e modifichi progressivamente i termini stessi dell’insieme dei problemi”.
5. Nuovi approcci di studio per la scienza del diritto pubblico
La parte nettamente prevalente della scienza giuridica si è occupata delle questioni europee assumendole come un dato. Superata la fase, che resta ancora nei curricula degli studi universitari, nella quale erano relegate nel “diritto comunitario”, di impronta internazionalistica, gli autori hanno preso atto del diritto europeo e lo hanno inserito nelle parti sulle fonti, sull’organizzazione, sull’attività soprattutto per i profili, come i contatti pubblici, ormai retti quasi completamente da norme europee.
Sono ormai numerosi in tutti i paesi gli studiosi che vi hanno dedicato pregevoli trattazioni, fino a veri e propri trattati. Non sono molte le questioni di carattere teorico generale che vi sono state connesse. La principale è quella del carattere originale o solo desunto dalle categorie presenti nei sistemi di diritto amministrativo nazionali (v. ad es. le opinioni di A. von Bogdandy e di S. Cassese), ma basta leggere gli studi di G. D. Romagnosi agli inizi dell’800 per constatare come una serie di principi, come quelli di sussidiarietà e di proporzionalità erano già chiaramente enunciati, anche se è vero che il diritto europeo li ha riproposti e attualizzati.
Molto rari sono stati gli spunti critici, presenti soprattutto nella dottrina tedesca molto attenta, come la Corte Costituzionale, a evitare cessioni di sovranità non suffragate da decisioni assunte da organi democraticamente legittimati. Le Corti nazionali stanno inondando la Corte di Giustizia di questioni preliminari. Poche le resistenze, come quella del Conseil d’Etat francese nel configurare un obbligo delle Amministrazioni di dare esecuzione alle sentenze della Corte Europea dei diritti dell’uomo in materia di sanzioni amministrative (C. E.: Ass. 31/7/14, M. Vernes).
Vi è comunque, considerando complessivamente i lavori degli studiosi di diritto pubblico, un consistente squilibrio fra quelli che hanno fatto studi approfonditi sul diritto europeo e quelli che ne prescindono o lo trattano marginalmente e rivolgono i loro studi agli ordinamenti nazionali o alla comparazione fra questi. Le questioni inerenti alla distribuzione di competenze fra enti territoriali si sono concentrate in netta prevalenza sul rapporto fra Stato e regioni o comunità autonome o landers, che restano importanti ma hanno perso rilievo strategico. Agli infiniti dibattiti che hanno accompagnato le sentenze delle Corti Costituzionali ha fatto riscontro una diffusa accettazione acritica di quelle della Corte di Giustizia e della Corte Europea dei diritti dell’uomo.
Anche il problema del rapporto fra pubblico e privato, centrale per la scienza pubblicistica, ha molto raramente varcato la soglia delle problematiche nazionali o ha fatto riferimento ai profili europei solo per dare per scontato che questi impongono una economia di mercato, obliterando l’aggiunta “comune” ai Paesi membri. La differenza non è da poco perché nel primo caso vi sarebbe una ideologia liberista incorporata nell’ordinamento europeo, che non c’è, al di la di qualche confusione fatta propria anche dalla Corte di giustizia, perché l’ordinamento positivo europeo non mostra alcun interesse al libero mercato per le misure che corrispondono all’interesse comune degli Stati membri, come avviene in tanti settori come il carbone, la pesca, l’agricoltura, la politica doganale con i Paesi terzi. Anche i dogmi degli equilibri di bilancio vengono dimenticati senza obiezioni in presenza di un interesse comune: basta pensare alla esclusione dall’ambito contabile della sfera pubblica delle Casse depositi e prestiti e di istituti analoghi.
I problemi della sfera pubblica europea nell’economia e nei servizi sono stati poco studiati. Fra questi, il tema dell’impresa europea di interesse generale è stato oggetto solo di alcuni contributi interessanti che non hanno ancora ricevuto lo sviluppo che meriterebbero.
Una più diffusa consapevolezza del carattere decisivo che ha la questione europea dovrebbe indurre gli studiosi a spostare l’attenzione concentrandola in misura crescente su studi, anche de jure condendo, e in un raffronto con le architetture già sperimentate di Stati federali, sugli istituti amministrativistici e di diritto costituzionale di un ordinamento complesso che, in termini di enti territoriali, va dall’Unione Europea ai comuni.
Si dovrebbe anche discutere, più di quanto si sia fatto finora, se la prospettiva di lungo periodo debba essere quella di una Unione di Stati o quella di una Federazione di grandi aggregati regionali.
È un problema di là da venire, ma impostarlo fin d’ora può avere l’effetto positivo di indurre a una posizione non ostile all’Europa quelle popolazioni che rivendicano una maggiore autonomia dagli Stati o vogliono separarsene. Del resto l’attuale ciclo storico sta vivendo una fase inversa a quella che otto secoli fa portò alla formazione degli Stati nazionali e all’esaurimento del potere sovranazionale dell’Impero e della Chiesa che, se non altro per la loro lontananza, consentivano alle singole zone autonomie più marcate.
Giuliano Amato
Sono fondamentalmente d’accordo con te, Giampaolo. Penso anch’io che i passi avanti necessari possano essere compiuti solo attraverso accordi fra Stati volonterosi – come si fece con Schengen (più complicata è la cooperazione rafforzata, ma non la escludo). E penso che noi giuristi -ne parlavamo sere fa a Fiesole- dovremmo approfondire il futuro delle nostre discipline, che non sono più nazionali, ma neppure federalizzate. Hanno una transnazionalità tutta da mettere a fuoco. Un caro saluto. G
Paolo Caretti
Caro Giampaolo, ho letto con grande interesse il tuo “pezzo” sull’Unione europea, che in larga misura condivido. Mi permetto qui solo qualche piccola osservazione di carattere puntuale e qualcuna più generale.
Partendo da quelli puntuali, quando parli dell’espansione delle competenze dell’Unione grazie alla teoria dei poteri impliciti, forse si potrebbe dire che da Maastricht in poi è stato il principio di sussidiarietà a giustificare questa espansione, ancorando l’intervento dell’Unione (al di là delle competenze c.d. esclusive) a criteri di ordine sostanziale come la natura dei problemi da affrontare e l’opportunità di che essi vengano risolti a un livello superiore rispetto a quello degli Stati. Principio il cui rispetto è difficilmente giustiziabile (e infatti la Corte di Giustizia non ci mette bocca) mentre nell’applicazione dell’art.352 sui poteri impliciti essa è comunque chiamata a trovarne il fondamento negli obiettivi generali che l’Unione persegue). Ancora uno strumento poderoso di ampliamento delle competenze dell’Unione è venuto (a parte le delimitazioni formali) dalla giurisprudenza in tema di diritti fondamentali, a partire dall’affermazione della loro natura di principi generali del diritto comunitario: basta scorrere l’evoluzione della giurisprudenza in tema di eguaglianza per capire quale impatto essa abbia avuto non solo sulle singole parti in causa, ma sulla legislazione nazionale, spesso obbligata a modifiche dettate dalle pronunce della Corte di Giustizia, nei più diversi settori formalmente non ricompresi nelle competenze dell’Unione.
Ancora non direi che la Cedu è stata “recepita” nei Trattati dell’Unione. Come sai c’è da tempo l’idea dell’adesione dell’Unione ( come Stato ) alla Cedu, ma è ben lungi dall’essersi realizzata ( il che non significa che non ci siano forti interrelazioni tra le due Corti e le due giurisprudenze). Più in generale e venendo alla seconda parte del tuo scritto dove proponi alcune possibili vie d’uscita dalla crisi attuale. Io credo che tra le cause principali dell’attuale crisi dell’Unione ( oltre a quelle che tu metti bene in luce: scissione tra moneta unica, vincoli di bilancio e politiche economiche degli Stati; incapacità di contrastare in prima persona gli effetti negativi legati al moderno capitalismo finanziario indotto dalla globalizzazione ecc. ) sia da rintracciarsi nell’accelerato e non sufficientemente preparato allargamento dell’Unione ai Paesi dell’est europeo, prima, e della ex Iugoslavia poi. L’ansia di accogliere sottraendoli all’influenza russa Paesi dalle economie deboli e strutturate con un ruolo predominate dello Stato ( l’esatto opposto di quanto il vero principio costituzionale dell’Unione predica, ossia la libera concorrenza ); Paesi che avevano e hanno come obiettivo principale quello di recuperare un’identità nazionale smarrita negli anni dell’occupazione sovietica, con contorsioni ( prevedibili ) di neo-nazionalismo ha fatto fallire il progetto di Costituzione europea, ne ha fortemente indebolito il senso di solidarietà reciproca e ha dato vita ad un anello debole dell’Unione che ne ha accentuato la difficoltà a far fronte alla crisi economico finanziaria. In fondo, quello che tu proponi una ricostruzione dell’Unione a partire “dal basso” utilizzando l’istituto delle cooperazioni rafforzate, mi pare che lo confermi. Infine, quanto al possibile futuro, credo che l’alternativa storica resti: o l’Unione fa un salto deciso in una vera e propria dimensione costituzionale ( il che non vuol dire copiare le forme di governo nazionali, ma ricomporre nei trattati funzioni pubbliche decisive per governare in modo coerente le contingenze economiche , oggi molto diverse per cause e intensità, di quelle del passato ) o il progressivo declino più o meno rapido. Io spero che si segua la prima strada non perché mi faccia illusioni sulla “presa” di grandi ideali astratti, ma più realisticamente per la “presa” che ad un certo punto potrebbe avere l’interesse ( egoistico ) degli Stati, finalmente consapevoli dell’inadeguatezza della dimensione nazionale ad affrontare i problemi dell’oggi e ancor più quelli di un domani incerto. Tutto qui. A presto Paolo
Alessandra Pioggia
Rispondo all’invito al dibattito nello spazio commenti del contributo sulla questione europea, ma le considerazioni che seguono sono stimolate dalla lettura di questo insieme a quello sulle fattispecie miste pubblico-privato.
In quest’ultimo, infatti, c’è l’accorato invito a ripartire dai “fondamentali” a non perdere, cioè, di vista le componenti di base del sistema giuridico, per non rischiare di costruire categorie che si reggono su gambe fragili, tanto fragili, in alcuni casi, da crollare su se stesse al primo alito di vento.
Il pericolo che deriva dalla inconsistenza delle chiavi di lettura però non è solo quello della inadeguatezza delle ricostruzioni a dare conto della realtà, il rischio più grave è la perdita da parte degli studi giuridici della capacità di rivelare le dinamiche del potere, di mettere, cioè, a nudo i modi in cui certe forze piegano i diritti e li svuotano dall’interno, mentre il loro involucro resta illusoriamente intatto.
La mia sensazione è che questo pericolo più grave si sia già concretizzato in molti dei modi in cui la scienza giuspubblicistica sta guardando alla realtà del diritto. Se da un lato si sottolinea la riduzione della sovranità degli Stati, dall’altro non ci si domanda se questa sovranità si sia spostata altrove o se, come sembra, sia semplicemente andata perduta, a scapito di una capacità di disciplina dei processi che non è da un’altra parte, ma semplicemente non c’è più. Anche la cultura costituzionale sembra seguire lo stesso processo di riduzione per dissoluzione. L’idea che la Costituzione abbia già svolto la propria funzione rivoluzionaria e che ora sia la volta di altre Carte, di altri Patti, pecca, nel migliore dei casi, di eccesso di ottimismo e, nel peggiore, di cattiva fede.
Allora mi pare che il richiamo ad un’Europa da ricostruire dal basso debba essere inteso, soprattutto da noi giuristi, anche come invito a rileggere i processi a partire dal recupero dei fondamentali fra i quali c’è, ad esempio, il senso e il significato stesso dell’esistenza del pubblico che non è solo luogo del potere, ma è anche e soprattutto luogo della funzione. E’ la funzione, del resto, a dare sostanza ai diritti e perdere di vista la prima corrisponde a togliere sostanza ai secondi.
Solo un esempio. La disciplina europea delle cure transfrontaliere che, in nome del diritto alla libera prestazione dei servizi, impone in molti casi il rimborso delle cure usufruite in altro Paese dell’Unione per libera scelta del paziente, contribuisce senz’altro a ridurre il potere dell’amministrazione di un singolo Stato e aumenta senz’altro lo spazio di libertà delle persone. Ma aumenta i loro diritti? O meglio è coerente con l’esigenza di garantire a tutti l’effettività del diritto alla salute, preliminare alla libertà di curarsi?
Per rispondere a questa domanda bisogna guardare a quella dimensione del potere pubblico che è funzione e quindi organizzazione. Se si assume questa prospettiva non può non considerarsi come, perlomeno in astratto, la possibilità di qualsiasi cittadino italiano di farsi curare in un altro Paese membro a spese del sistema sanitario nazionale metta l’organizzazione di quest’ultimo in serio pericolo: pericolo di sottoutilizzazione di apparati di servizi che debbono comunque essere mantenuti funzionali e operativi, pericolo di impiego delle risorse per compensare costi che non hanno alcun ritorno funzionale nel sistema interno, per non parlare poi del pericolo che di una sanità così impoverita debbano in futuro usufruire solo i più poveri, quelli che cioè non possono permettersi un viaggio di cura all’estero.
Si risponderà che nell’attuazione interna della direttiva il legislatore italiano ha inserito eccezioni e correttivi che temperano questi pericoli e che di fatto coloro che ricorreranno alle possibilità aperte dalla disciplina europea delle cure transfrontaliere non saranno molti. Ma siamo sicuri che il nostro modello costituzionale di tutela del diritto alla salute sia rimasto quello? Siamo sicuri cioè che non sia in atto uno svuotamento dall’interno del significato di alcune nostre categorie che non stiamo segnalando con la dovuta forza, che non stiamo, in alcuni casi, denunciando come dovremmo se la Costituzione ha ancora un senso?
Forse rispondere a queste domande ci aiuterebbe a capire dove ricominciare a costruire i fondamenti di una Unione che non contenga in sé la dissoluzione di ciò che unisce, ma che da ciò che mette insieme tragga la sua forza.
Marcos Almeida
Sono d’accordo, in sostanza, con le riflessioni da Lei sollevate in questo magnifico saggio. Vorrei soltanto approfondire in una questione in cui, in parte non concordo con il Suo autorevole approccio. Si segnala nel Suo testo che non vi è sufficiente consapevolezza sociale dell’importanza di “costruire” Europa. Credo che, come dimostrano le tristi vicende delle ultime settimane – il Brexit e le voci che si alzano in molti paesi del nostro continente chiedendo il seguire questa sciagurata via–, che la situazione è molto più grave. Sembra che il progetto europeo sia a rischio di implodere (secondo me, e in questo punto, sono in contrato con Lei, sì c’è un movimento populista, anche se ancora di minoranza –un germoglio—, che può essere assimilato a quello che una volta portò alla nascita degli stati-nazione). In questa situazione, il compito degli studiosi, specialmente universitari, non solo è quello di approfondire nuove prospettive di analisi del processo di unione per farlo andar avanti dal punto di vista giuridico, ma soprattutto è quello di avvicinare questo fenomeno e il suo valore positivo per il progresso dei popoli d’Europa alle società nazionali, allo scopo di riuscire al suo rafforzamento. In fine, approfitto queste righe, da un lato, per congratularmi per questa Sua iniziativa di creare nuovi forum aperti, contribuendo, così, senza dubbio a che la scienza, come domandavo prima, si avvincine alla società, e d’altra parte, mi scuso con i lettori italiani per gli errori all’ora di impiegare la sua bella e nobile lingua.
Elena Irrera
Caro Professor Rossi,
ho letto con estremo interesse la sua discussione sul carattere strutturale della crisi delle istituzioni europee, crisi che, in base alla ricostruzione da lei fornita, risulta fondata in ultima analisi su una vistosa asimmetria tra destinatari della domanda sociale e le istituzioni chiamate a rispondere alle legittime rivendicazioni di questi ultimi. In particolar modo, trovo illuminante la sua proposta di gestione e riduzione di tale asimmetria attraverso lo strumento della cooperazione rafforzata tra stati membri. La sua riflessione solleva importanti questioni che, a mio avviso, trascendono il piano prettamente giuridico, economico e sociale, afferendo al dominio della filosofia e della riflessione sulla natura delle relazioni intersoggettive (tra individui così come tra soggetti istituzionali), i loro scopi ultimi e la giustificabilità delle strategie da implementare in vista di tali scopi.
A questo proposito, ritengo che una promettente traiettoria di sviluppo delle sue argomentazioni possa far leva sul valore della solidarietà (valore frequentemente menzionato nei trattati istitutivi dell’Unione Europea, che può essere declinato tanto sul piano delle relazioni interpersonali tra i membri una data comunità politica quanto su quello normativo dei rapporti tra istituzioni politiche e individui). Come sottolineato ad esempio nel preambolo al TUE, la solidarietà costituisce uno dei principi cardine (insieme a quelli della libertà, della democrazia e del rispetto dei diritti dell’uomo e dello stato di diritto) attorno ai quali si impernia la prospettiva di forme di organizzazione comunitaria improntate alla ricerca di eguaglianza e giustizia economico-sociale.
Tuttavia, alla frequenza delle menzioni del valore della solidarietà negli strumenti giuridici dell’Unione Europea non sembra corrispondere un’adeguata conoscenza della natura di tale principio, dei suoi presupposti definitori e delle sue implicazioni pratiche e normative. Sarebbe dunque interessante, a mio avviso, avviare un’opera di chiarificazione concettuale della nozione di “solidarietà” che possa beneficiare di una ricostruzione storico-filosofica capace di coglierne le radici. A questo proposito, segnalo il potenziale contributo rintracciabile nel pensiero di Aristotele, specialmente in relazione alla sua visione di un’amicizia politica (politikē philia) capace di combinare il riguardo per l’altro alla naturale ricerca di utilità di individui e gruppi. Non è probabilmente un caso che, nell’VIII libro dell’Etica Nicomachea, il filosofo affermi che compito dei legislatori virtuosi sia quello di promuovere il valore dell’amicizia ancor più di quello della giustizia (quest’ultima, presumibilmente, intesa come pura conformità ad un ordinamento giuridico stabilito). L’amicizia, quale complemento di una giustizia puramente formale, permette di portare a massima attualizzazione le funzioni specifiche di individui e gruppi sociali, attraverso meccanismi di distribuzione e di riconoscimento che permettano la realizzazione di un’unità capace di non penalizzare la diversità, ma al contrario di valorizzarla. Un’idea centrale, a questo proposito, è quella dell’amico come di un “altro se stesso” (allos autos), ossia come individuo capace non solo di rispecchiarsi nell’altro e di individuare in maniera più chiara esigenze e scopi virtuosi a lui endemiche, ma anche come figura capace di intraprendere insieme all’amico stesso un percorso di conoscenza e di realizzazione più piena della giustizia e del bene.
Guido Corso
Caro Giampaolo,
concordo anch’io sulla estrema attualità della questione europea, a prescindere dal Brexit. Tenuto conto della complessità del tema, che ovviamente non è solo giuridico, mi riservo un intervento più meditato non appena avrò riordinato le idee e acquisito le informazioni e le conoscenze necessarie.
Mentre ti rinnovo i complimenti per l’importante iniziativa, mi prenoto per un intervento sulla questione europea.
Un abbraccio
Guido Corso
Peter M. Huber
Caro Giampaolo,
ti ringrazio molto per le tue riflessioni. Sono molto contento con il contenuto e con la tua idea di dare più spazio alla periferia e di imparare dalle esperienze federali.
Personalmente sono convinto che avremo meno problemi in Europa, se non concepiamo l´Unione come una organizzazione gerarchicha nello stile francese, ma se ci ascoltiamo e siamo aperti ad imparare uno dall´altro. Questa è l´idea che sta dietro la nostra giurisprudenza per quanto riguarda l´Europa e vuole un cambiamento profondo nell’approccio delle istituzioni e della gente che le gestisce.
Scusa per gli sbagli
Cari Saluti
Peter
Giacomo Robustelli
Caro Giampaolo,
grazie per questo tuo impegno e riflessione alta sui temi europei da una prospettiva giuridica, ma con contenuti che possono essere compresi anche dai non esperti di diritto.
Dal mio modesto osservatorio di giornale on line fondato a Bruxelles (Eunews), mi incontro ogni giorno con masse di lettori che, spaventati dalle incertezze odierne, hanno trovato un facile bersaglio nella lontana “Europa” e un numero insospettabile di appartenente alle classi dirigenti che in Europa non confondono solo Consiglio europeo e Consiglio d’Europa, ma anche questi con la Commissione!
Quindi si, per farsi riconoscere questa Europa non può più vantarsi dei progetti Erasmus e delle bandiere apposte ai piedi delle opere finanziate, Ha bisogno prima di ogni altra cosa di un Bilancio proprio e legittimo, con quei paesi che avranno la lungimiranza ed il coraggio di fare questo passo avanti perdendo il controllo diretto su una parte del loro di bilancio!
Stefano Giubboni
Caro Giampaolo,
condivido la tua diagnosi sulle cause molteplici di quella che perfino Juncker chiama ora la crisi esistenziale d’Europa. E condivido anche le linee di rifondazione – più che di riforma – che proponi per superare la crisi. Di alcune di queste proposte si discute in realtà da anni e a ben vedere – almeno sulla carta – qualcuna è già presente persino nell’agenda della Commissione europea.
Temo però di essere molto più pessimista di te sulla realizzabilità politica di queste proposte, anche di quella parte minima (revisione e riequilibrio degli “effetti distributivi” del fiscal compact, unione bancaria, politica comune dell’immigrazione) che credo sia indispensabile per la assicurare la semplice sopravvivenza, anche solo nel medio termine, del progetto di integrazione. Le forze della disgregazione – alimentate da divisioni di interessi e di visione strategica sempre più profonde tra gli Stati membri dell’Unione (e della stessa Euro-zona) – sono troppo forti, oggi, perché si possa realisticamente sperare in un riscatto politico del progetto europeo “dal basso”. Il ritorno della questione tedesca in un contesto di generale mutamento degli equilibri geopolitici ed economici produce una spinta disgregativa difficilmente contenibile, specie dentro il logoro quadro istituzionale esistente (è ormai diffusa l’osservazione che il diritto, da veicolo fondamentale di integrazione, sia divenuto esso stesso fattore di disintegrazione: appunto di disintegration through law, come scrive ad esempio Joerges rovesciando il senso della nota formula). E un paese come l’Italia si trova, in questo contesto, in una condizione particolarmente acuta di debolezza e di fragilità.
Mi auguro naturalmente che il mio pessimismo sia eccessivo e ingiustificato (ma suggerisco di leggere l’analisi lucida e impietosa di un autorevole osservatore americano, come John R. Gillingham: The EU. An Obituary, Verso, 2016). Ed è con questa flebile speranza che ritengo necessario continuare, nonostante tutto, a impegnarsi, come fai anche tu con questo importante stimolo al dibattito pubblico.
Un caro saluto.
Stefano Giubboni
Dian Schefold
Caro Giampaolo,
grazie della notizia – con allegati davvero pesanti e interessanti, proprio una sfida estremamente ricca per riflessioni! Non posso reagire completamente, ma mi permetto poche ossvervazioni. Comincio con il saggio sulle fattispecie miste, perchè si incontrano con una mia ricerca recentemente pubblicata, allego una versione breve in italiano. Hugo Preuß era allievo di Otto von Gierke, e si vede anzitutto nei suoi primi scritti come tenta di ordinare i settori di privato e pubblico, collegati, secondo la teoria di Gierke, da un “diritto sociale” che può svilupparsi nella direzione sia di diritto pubblico, sia di diritto privato; questo vale anzitutto per le cooperative/ società, e per l’impiego pubblico (Preuß, Das städtische Amtsrecht in Preußen, 1902). Ma Preuß si opponeva a un concetto di sovranità statale! Si vede già da questo come le linee di delimitazione fra diritto pubblico e privato sono differenti nei singoli ordinamenti – e questo, ovviamente, è di gran rilievo per il diritto europeo che, se vedo bene, non distingue tra le forme giuridiche nazionali per conretizzare e trasformare le direttive – ad es. nel diritto degli appalti (Vergaberecht), diritto civile in Germania, e per la libertà più (Germania) o meno (Francia) grande per le società per l’erogazione di servizi pubblici. Sono molto d’accordo con te che queste differenze vietano una risposta univoca e richiedono una differenziazione dettagliata; grazie per i tuoi punti di vista importanti!
Così già questa problematica è collegata con la questione europea, e leggo questo testo tuo con grand’interesse. È, purtroppo, ovvio che l’Europa dei 28 arriva a limiti, fino al Brexit e a caricature d’inserimento nell’Unione Europea in alcuni ordinamenti. Un problema essenziale era certo l’allargamento precipitato dell’UE all’inizio del millennio, e quindi la tua raccomandazione di cooperazione rafforzata per pochi Stati membri è logica. Tuttavia sta per aumentare le differenze fra gli Stati, e ciò che anche tu chiedi è un ravvicinamento economico migliorato, anche – ma certo non soltanto – tramite la BCE. Però come trovare l’adesione a tali tendenze? Purtroppo è giusto ciò che vedi come sintomi di crisi, e il bisogno di pressioni contro la richiesta dell’unanimità è ovvio – pensiamo a CETA e il Canada. Perciò per me il cammino democratico è irrinuncibile, e penso al bisogno di un rinforzamento del Parlamento Europeo (diritto elettorale!) e alla riduzione del metodo consensuale nel Consiglio Europeo. Ma sono cosciente del fatto che questa strada è lunga, difficile, caricata di ostacoli, e non ho una risposta pronta.
Ma ti ringrazio molto di queste tue idee, e – limitandomi per ora a queste poche osservazioni – le utilizzero.
Con saluti cordiali, Dian Schefold.